L'ultima fatica scientifico-divulgativa della Prof. A. Oliverio Ferraris - Ordinario di Psicologia dello Sviluppo presso la Facoltà di Psicologia1 dell'Università di Roma Sapienza - coglie nel segno non solo perché tratta un tema sempre più scottante, ma soprattutto perché evidenzia la "nefasta" influenza della TV sulla vita quotidiana di un arco di età che va dai 2-3 anni fino ai 17-20 anni.
L'Autrice evidenzia soprattutto come la TV - anche quella delle fasce orarie protette - in effetti usi mezzi sottili e direi subdoli, spesso tratti da una ricerca psicologica che si presta a tale uso, per ingenerare e sollecitare il consumismo e non solo.
Credo che questo libro debba essere letto da quanti, genitori, professori, maestri o comunque addetti a proteggere questa fase di vita così delicata, perché nonostante l'eccessiva modestia che induce l'Autrice a definire questo libro come un pamphlet, in effetti è una denuncia molto documentata e soprattutto efficace e sintetica.
In questo arduo compito l'Autrice non demonizza la TV e gli altri mezzi mediatici che servirebbe a ben poco, ma si limita ad evidenziare quali sono le tecniche e le motivazioni che si celano dietro innocui (apparentemente) spot pubblicitari o programmi televisivi, attenendosi al noto aforismo "che il pericolo se lo conosci lo eviti". Infatti sembra esserci da parte degli adulti una vera e propria cecità sui pericoli a cui sono esposti soprattutto i più piccoli nell'essere lasciati liberi di vedere la televisione a loro piacimento.
E' ormai chiaro che la Tv ha scoperto e non da poco che il mercato più allettante e facilmente raggiungibile, a causa di una estrema tendenza alla imitazione, riguarda soprattutto nei bambini in età prescolare o della scuola primaria. Questa capacità di imitazione, ovviamente non può essere vagliata criticamente a tale età se non con la presenza di un adulto che invece è spesso assente.
Negli spot pubblicitari sempre più compare un invito, spesso allusivo e non sempre criptico, all'esposizione erotica ed alla violenza che spesso può avere effetti disastrosi sulla struttura mentale in evoluzione del bambino che poi metterà in atto nella preadolescenza o nell' adolescenza comportamenti seduttivi e/o violenti di cui spesso non ha alcuna consapevolezza. La continua riduzione della donna ad oggetto e la violenza come segno di superiorità e di capacità, saranno vissuti come valori da imitare dando luogo alla sindrome di Lolita o al dilagante bullismo.
Come dicevo, l'Autrice non demonizza i vari mezzi mediatici, ma evidenzia fondamentalmente le tematiche e le motivazioni che si celano dietro apparenti programmi che sembrano innocenti e poco pericolosi.
Credo che questo libro, insieme ai due precedenti Trasmissioni televisive, comunicazione etica, 1998, Edizioni Cortina e Piccoli Bulli crescono , 2008, Rizzoli Editore, debbano considerarsi come una trilogia per quanti si occupano dell'accudimento - come genitori o come docenti - di persone di questa critica fascia d'età della vita dell'uomo.
ESTRATTI DAL TESTO
Sindrome Lolita.
Il mondo in cui oggi crescono i bambini e i ragazzi è drasticamente diverso da quello in cui sono cresciuti i loro genitori e i loro nonni. Siamo ormai in piena era virtuale e l'accesso ai media è disponibile attraverso le tecnologie più disparate, non solo il televisore e il computer di casa ma anche il telefonino, che sembra ormai diventato una sorta di estensione del nostro corpo e della nostra mente. Il mondo attuale è ricco di richiami, di informazioni, e mette in scena un immaginario multimediale in cui ci si può avventurare alla ricerca di nuovi stimoli e sollecitazioni, ma ci si può anche perdere come in una foresta molto fitta dove è facile entrare ma da cui può essere difficile uscire.
Chi si avventura in questo oceano di informazioni fin dall'infanzia, chi naviga in internet attraverso migliaia e migliaia di siti o interagisce sui blog più diversi può farlo senza disporre di una bussola? È in grado di mantenere una rotta senza perdersi, affascinato e rapito dal canto delle molte sirene? Ma c'è di più. Anche senza essere attivi, senza cioè solcare le vie della rete, siamo tutti raggiungibili da una serie di messaggi che ci assediano, come predatori, dai vari canali televisivi, dai magazine, dai cartelloni stradali e, ovviamente, anche dai siti del web dove compaiono, all'improvviso, tante finestre pop-up con i loro seduttivi messaggi promozionali, spesso difficili da chiudere per tornare alla rotta preferita.
Questa invasione di messaggi non richiesti, di seduzioni mediatiche, di emozioni funzionali alla vendita, è sempre più perfezionata e accattivante grazie al contributo di una vasta schiera di pubblicitari e massmediologi in quanto, come ci ha spiegato Marshall McLuhan, oggi migliaia delle migliori menti si occupano a tempo pieno di analizzare la psicologia collettiva, sfruttarla e tenerla sotto controllo. Le tecniche dei persuasori occulti fanno leva sul nostro inconscio attraverso messaggi seduttivi che sollecitano le nostre pulsioni, il nostro eros e, più semplicemente, la nostra ricerca di novità, quella curiosità che ci spinge a prestare attenzione a ogni nuovo richiamo. Un dressage e una pressione che iniziano sempre più precocemente, da quando cioè i signori del marketing si sono accorti che i più malleabili e influenzabili di tutti sono proprio i bambini. E se un tempo i richiami provenivano dal mondo naturale, dal passaggio di un animale o dall'avvicinarsi di un ospite inatteso, da storie raccontate o lette, oggi giungono da un mondo virtuale, dotato di una notevole suggestione, potenziato da musiche suadenti in grado di suscitare emozioni, evocare ricordi e favorire associazioni anche nostro malgrado.
Difficile, per i nostri figli, sfuggire all'incanto di questi richiami, non farsi ammaliare da chi li vuole far crescere troppo in fretta. Difficile non cadere vittima della sindrome Lolita, che li colpisce tutti quanti indistintamente, maschi e femmine, trasformandoli in adulti prima del tempo, piccoli automi che ripetono gesti e atteggiamenti di cui ignorano il significato.
Difficile anche sottrarsi, nell'era della globalizzazione, alle leggi del mercato e alle nuove raffinatissime tecniche della propaganda: forse, quando anche i più adattabili e accondiscendenti di noi riterranno che si siano raggiunti livelli intollerabili, il mercato troverà delle regole: ma nel frattempo, che fare? Come proteggere i nostri figli dai tanti seduttori che si affacciano da ogni ambito della quotidianità? Come consentire loro di crescere secondo i propri ritmi? Come aiutarli a diventare liberi e autonomi invece che oggetti-bersaglio di una persuasione incalzante? Qualcosa è possibile. Anzitutto si tratta di prendere coscienza di una situazione decisamente diversa rispetto al passato e, in secondo luogo, di dotarsi degli strumenti per poter entrare nel magico mondo dei persuasori e comprenderne le mille arti e i mille trabocchetti. In mancanza di queste capacità i nostri figli sono condannati a incolonnarsi, come ipnotizzati, al seguito del grande pifferaio magico che li porterà dentro la montagna, in un mondo dominato da una logica esclusivamente commerciale.
Ovviamente, non è che il denaro e i beni di consumo siano lo sterco del diavolo, c'è molta creatività e molta intelligenza in tanti prodotti commerciali e messaggi pubblicitari: ma quando viene potenziato un mondo in cui la seduzione penetra profondamente nell'inconscio per orientare ogni spazio disponibile ed erodere ogni capacità di autonomia, bisogna essere in grado di tirare il freno a mano. Esiste infatti un grosso equivoco, che la libertà delle persone coincida con il fruire di una meteora inesauribile di emozioni: emozioni che derivano dagli spot, dai serial televisivi, dai videogiochi, dai vip che si esibiscono in tv, dall'acquisto di infiniti prodotti fatti per suscitare un'ulteriore gamma di sentimenti, sempre pilotati dall'esterno, sempre legati alle acquisizioni e ai diktat delle voghe del momento. Le emozioni sono indubbiamente importanti per relazionarci con gli altri e per poter godere di tutto ciò che la vita ci offre. Soltanto gli psicopatici ne sono privi. L'emozione, come l'immaginazione e la creatività, indirizza e dà senso al mondo. Non può però essere del tutto disgiunta dall'intelligenza. Un'intelligenza senza emozione ci rende simili ad automi, ma un'emozione senza intelligenza ci lascia troppo esposti ai maghi della suggestione.
Questo libro vuole indicare, attraverso un percorso guidato per i luoghi in cui si coltiva l'arte complessa della persuasione, una possibile via d'uscita per quanti credono nei valori dell'autonomia, della libertà di scelta e dell'autodeterminazione.
(pp. 7-10)
*************
Qualche anno fa presi parte a una trasmissione televisiva incentrata sul wrestling: uno spettacolo di lotta che andava in onda in quel periodo e aveva tra i suoi fan non soltanto gli adulti e i ragazzi ma anche i bambini. Fu soltanto quando una delle più note star americane ammazzò la moglie con un colpo da ring che il wrestling scomparve dai palinsesti televisivi italiani per un certo periodo, salvo poi ricomparire qualche tempo dopo.
Ero stata invitata alla trasmissione col pretesto di valutare i pro e i contro di quel tipo di lotta; in realtà l'obiettivo del programma era quello di pubblicizzare lo spettacolo tra i telespettatori. Me ne accorsi quando ormai ero in studio. Come spesso succede in tv c'era un doppio livello: per compiacere i «moralisti» il wrestling come spettacolo inadatto ai bambini doveva essere stigmatizzato, al tempo stesso però in studio erano presenti i lottatori, con i loro sfavillanti costumi di scena. Una serie di esibizioni già programmate in varie località italiane rappresentava un business da promuovere. Gli agenti avevano lavorato alacremente per realizzare quel trailer dal vivo. Alla mia destra sedevano due star italiane e alla mia sinistra due giganteschi campioni americani: i lottatori erano truccati da guerrieri medievali e da gladiatori romani, avevano gli scudi, le maschere e le corazze. Nel corso della trasmissione uno dei due giganteschi vichinghi americani mi spiegò con una certa irruenza che i colpi che si scambiavano sul ring erano tutti quanti autentici, non simulati come invece avevo spiegato io nel rispondere a una domanda della conduttrice. E a riprova di quanto affermava chiese al cameraman di zoomargli una vistosa cicatrice sul collo.
Per fortuna le cose non stanno esattamente come sosteneva il gigante biondo. Gli incidenti tra sfidanti possono capitare, ma non sono così frequenti come loro ci tengono a far credere. Gli atleti che si esibiscono sul ring hanno imparato, attraverso lunghi allenamenti, a calibrare colpi che altrimenti sarebbero micidiali. Come i lottatori circensi, possiedono tecniche per evitare di farsi del male a vicenda e quando cadono rimbalzano su una superficie elastica. Gli stessi colpi invece, ripetuti da ragazzi che non padroneggiano quelle tecniche, e su superfici non elastiche, possono produrre lesioni anche gravi. È un mondo, quello del wrestling, in cui realtà e finzione si fondono e si confondono e dove la lotta è fortemente drogata dalla componente spettacolare. Ciò però finisce per disorientare molti spettatori che hanno difficoltà a tracciare un confine tra colpi leciti e colpi vietati.
Nonostante la sua concreta pericolosità non è questo tuttavia l'aspetto più diseducativo del wrestling. Per divertire il pubblico e rendere più eccitante l'incontro, i lottatori ricorrono anche a pesanti forme di violenza verbale e psicologica. Prima, durante e dopo i match vengono messe in scena delle piazzate e delle narrazioni ad hoc sui protagonisti, i loro rivali e le loro burrascose relazioni. La filosofia sottesa a queste esibizioni è che i «veri» uomini sono bulli, violenti e grossolani e che l'avversario deve essere insolentito e disprezzato. Incontro dopo incontro i lottatori più massicci se la prendono con i più esili, li insultano, li picchiano, li deridono, li ridicolizzano e li aggrediscono anche quando sono stremati (o fingono di esserlo). In risposta alle grida di incoraggiamento del pubblico, simulano rancori, punizioni, slealtà e si abbandonano a comportamenti volti a umiliare chi perde.
Al contrario di altri sport aggressivi come la boxe, dove il rispetto dell'avversario è d'obbligo e le decisioni dell'arbitro sono rispettate, nel corso di uno show di wrestling si assiste continuamente a gesti sconci, si vedono sedie, bidoni della spazzatura e altri oggetti lanciati contro gli avversari, calci all'inguine, contestazioni e attacchi fisici e verbali agli arbitri e così via. Infine, per coinvolgere i giovani spettatori vengono realizzati spot promozionali, videogiochi, pupazzi, figurine e ologrammi che riproducono i lottatori più in voga in quel momento: un variegato merchandising che i bambini di tutte le età possono trovare nei negozi di giocattoli o nelle confezioni di merendine, biscotti e succhi di frutta, nei giornaletti e persino nei fustini di detersivo per il bucato.
Di fronte a una campagna di seduzione così ben orchestrata e capillare non è facile resistere, anche perché quelle suggestioni e quei modelli vengono offerti ai ragazzi dagli adulti e presentati come «la realtà», ossia come qualcosa che accade e va condiviso. Uno dei metodi più efficaci della propaganda consiste proprio nel diffondere la notizia che un determinato prodotto, personaggio, evento è condiviso, apprezzato e atteso dalla gente. C'è chi sostiene che proprio perché è grottesco e paradossale, il wrestling non è pericoloso. Il lato grottesco, però, lo notano i grandi, molto meno i piccoli. Se poi si considera che alcuni individui sono più eccitabili di altri non è difficile comprendere da dove possono trarre origine taluni episodi di violenza, in parte autentici e in parte recitati, che finiscono su YouTube. I ragazzi si uniformano ai modelli che vengono loro proposti. E oltre ai messaggi diretti molti spettatori fanno propri anche quelli indiretti, spesso più potenti dei primi. Per esempio, se il wrestling va in onda in un orario di massimo ascolto e i programmi scientifici all'una di notte, il messaggio implicito in questa scelta del palinsesto è che il primo è assai più rilevante degli altri.
(pp. 18-23)
**
Meglio sexy che intelligenti
Non solo la violenza, anche il sesso ha conquistato, nel nostro mondo massmediatico, una collocazione centrale. La differenza tra la rappresentazione della donna degli anni Settanta e quella di oggi è impressionante. Allora la donna doveva essere intelligente almeno quanto l'uomo, oggi invece si chiede di apparire seducente e sexy. Sexy come le star della canzone, del cinema e della tv. Un compito non facile, che richiede per la maggior parte delle donne un'attenzione costante al proprio corpo e all'abbigliamento. Il difetto fisico è una colpa a cui va posto immediato rimedio.
Il paragone con le bellissime degli schermi è perdente genera inquietudine, anche perché fanno loro stesse ricorso a interventi estetici per apparire ancora più belle,ringiovanire, eliminare qualsiasi tratto che non sia in linea con i modelli ideali. Ognuna spia il proprio corpo, lo valuta, si indispettisce, lo sottopone a trattamenti migliorativi. Un secondo imperativo, collegato al precedente, è che l'ammirazione e i riconoscimenti sociali si ottengono attraverso l'erotizzazione dell'abbigliamento e la seduzione sessuale, una seduzione che spesso assume i toni aggressivi dei corpi esibiti come veri e propri strumenti di dominio nei confronti di un pubblico eccitato e sottomesso. Il fatto stesso che le giornaliste televisive debbano, anch'esse, indossare abiti sexy e scollati è indicativo del dilagare di questa tendenza, che in Italia raggiunge livelli superiori a ogni altro Paese occidentale.
In questo vortice sono trascinate anche le bambine, cui vengono offerte bambole dall'aspetto iperfemminile e sexy. In preda alla «sindrome Lolita» imparano a truccarsi a cinque-sei anni, ad atteggiarsi a vamp a sette-otto, a fare shopping a otto-nove. Sostenuti spesso in questi «gusti» dalle madri, che prendono a modello le star e le loro figlie, testimonial bambine di importanti case di moda. Sembrerebbe che non ci sia più spazio per la fantasiosa e genuina Pippi calzelunghe né per giochi misti di un tempo, quando maschi e femmine non ancora pressati da questi stereotipi, giocavano insieme senza dover sentirsi in colpa se sconfinavano gli uni nei giochi delle altre e viceversa.
I bambini sanno ciò che gli adulti approvano e disapprovano e ne tengono conto. Verso la fine degli anni Settanta, una nota casa produttrice di giocattoli fece un esperimento da cui emersero risultati interessanti. Quando bambini - maschi e femmine tra i quattro e i sette anni - giocavano insieme in un grande spazio, liberi di accedere a giocattoli sia di segno femminile (bambole, pentoline, corda per saltare, smalto per le unghie, trucchi...) sia di segno maschile (macchinine, trenini, armi giocattolo, pallone ...) e neutro (costruzioni, palla, bicicletta...), essi si accostavano a ogni tipo di giocattolo, senza preoccuparsi se questi fossero stati progettati per gli uni o per le altre. Le bambine erano interessate ai «loro» giocattoli così come al trenino e alla pistola ad acqua; i maschietti potevano tranquillamente avvicinarsi alle bambole, ai trucchi e agli smalti per le unghie. Lontani dalle paranoie degli adulti bambini erano incuriositi da giocattoli diversi di cui cercavano di esplorare potenzialità e applicazioni. Il trucco per esempio, non è una prerogativa esclusiva delle femmine, ma una componente dei giochi di travestimento e di drammatizzazione come il teatro. Quando però tornavano in famiglia la maggior parte dei bambini, si dedicava a giocattoli del proprio sesso. Il motivo era chiaro agli stessi bambini. «Papà e mamma non vogliono» era la spiegazione ricorrente. D'altro canto sono i genitori che regalano i giocattoli ai figli e questo è un tipo di messaggio molto forte. «I giochi da maschio mi piacciono,» spiega un bimbo di cinque anni «qualche volta mi piace giocare con le pentoline delle bambine. Sono però giochi da femmine e la mamma vuole che io faccia soltanto giochi da maschio.»
Oggi, in più, c'è anche il martellamento quotidiano e stereotipato degli spot.
Scheda 2. Dal bambolotto alla Bratz
La bambola classica degli anni Quaranta e Cinquanta era una bambina di due o tre anni, spesso un neonato, che aveva la doppia funzione di intrattenere e insieme avviare le bambine al mestiere di madre. Il bambolotto veniva vestito, svestito, cullato, allattato, imboccato, sgridato, baciato, aveva la sua carrozzina e il biberon. Gli abiti erano quelli dei bimbi piccoli.
Negli anni Sessanta e Settanta compare la Barbie , una giovane donna, amante dell'eleganza, dei viaggi e dello sport, non più legata ai ruoli domestici tradizionali e accompagnata da Ken, il fidanzato. Barbie ha un enorme guardaroba e molti accessori per la sua toilette personale.
Sebbene non sia un tipo materno, Barbie può avere dei figli; si tratta però di bambolottini di dimensioni molto ridotte che certamente non possono essere abbracciati e cullati. Una bambina che gioca con una bambola tradizionale e una che si intrattiene con la Barbie giocano in modi differenti. La prima si cala nel ruolo di mamma e si affeziona al bambolotto. La seconda si identifica con un suo alter ego «grande» e sviluppa delle aspirazioni per sé. La Barbie ha oggi una temibile concorrente nelle Bratz, che hanno fatto la loro irruzione sul mercato nel 2001. Le Bratz propongono un modello marcatamente diverso non solo dalle bambole tradizionali ma anche dalla Barbie: non trascorrono più il tempo in piscina, in viaggio e con gli amici, ma a preoccuparsi del proprio look e a fare shopping, uno shopping estremo che avvia le bambine alla carriera di consumatrici.
A erotizzare il corpo infantile contribuiscono oggi stilisti e pubblicitari. Nel corso di un convegno sulla creatività a Sarzana ebbi l'occasione di ascoltare un noto fotografo che ha messo la sua arte e il suo talento al servizio della pubblicità. Questo personaggio, celebrato e capace, spiegava come le donne di oggi siano artefatte (truccate, tinte, siliconate, massaggiate, rimodellate...) e come la genuinità sia rimasta appannaggio delle bambine. Ciò lo autorizzava, secondo lui, a ritrarre le bambine nelle sue pubblicità, così come d'altro canto fanno altri suoi colleghi meno noti.
In due note pubblicità di abbigliamento per bambini, le modelle fotografate hanno un'età che si aggira tra i sei e gli otto anni. In una di esse, le baby-modelle indossano abiti che ricalcano la moda adulta e guardano dritto nell'obiettivo, quasi a sfidare l'osservatore. Hanno catene e monili che rappresentano un forte richiamo per le piccole consumatrici. Nell'altra, due lolite in minigonna, in posa da pin-up, guardano provocatoriamente la macchina da presa. Indossano top e stivali, hanno vistosi nastri tra i capelli: una è quasi distesa su una sedia, le gambe allungate; l'altra tiene le mani in tasca, imbronciata. È un'immagine inquietante. Non sono bambine ma piccole adulte. Dall'espressione dei visi e dagli sguardi si direbbe che abbiano un passato e un'esperienza di seduttrici consumate.
Per comprendere che impressione certe immagini possono fare su persone adulte con figli della stessa età, abbiamo chiesto a 70 genitori (35 madri e 35 padri di età compresa tra i venticinque e i cinquantasette anni) di dare una valutazione ai due soggetti.. Ed ecco alcuni dei loro commenti: «Sono bimbe oggetto», «Sembrano delle minorenni a Bangkok», «Un invito ai pedofili», «Mercificazione e adultizzazione dei bambini» (Oliverio Ferraris e Stevani, 2008). E tuttavia non si può ignorare che sono i genitori, in particolare le mamme, ad acquistare quegli stessi abiti per le figlie. A volte gli adulti subiscono il fascino delle pubblicità alla stregua dei bambini.
In Australia è nato un movimento che si oppone all'uso strumentale del corpo infantile. In due documenti ufficiali, Corporate Paedophilia e Letting Children Be Children (2006), sono illustrati i risultati di ricerche svolte sugli annunci pubblicitari rivolti ai bambini e ai loro genitori. Da questi documenti emerge che le immagini erotizzate delle bambine stanno diventando sempre più comuni nella pubblicità. «Corporate paedophilia», cioè «pedofilia aziendale», è un modo provocatorio di segnalare un tipo di strumentalizzazione che sconfina nell'abuso.
Negli Stati Uniti c'è stata una mobilitazione di giornalisti, associazioni per la tutela dell'infanzia, genitori e psicologi che ha portato alla costituzione di una task force in seno all'American Psychological Association. Nel 2007 è stato pubblicato un rapporto, dal titolo Task Force on the Sexualisation of the Girls, da cui emerge che all'erotizzazione del corpo delle bambine non concorrono soltanto pubblicità e mass media ma anche i genitori e gli insegnanti. Si viene a creare una sorta di circolo vizioso: le ricerche di mercato individuano alcune tendenze (trend) più o meno volatili; attraverso i mezzi di comunicazione di massa la pubblicità diffonde, potenzia e fissa queste tendenze; la loro diffusione su vasta scala ha successivamente l'effetto di imporre gusti e mentalità tra i consumatori più recettivi; prende così il via una moda che può avere risvolti collaterali non previsti. Per esempio, la preoccupazione per l'aspetto fisico può creare nei bambini insoddisfazione o imbarazzo quando pensano di essere «inadeguati».
L'erotizzazione dell'abbigliamento può indurre le bambine ad assumere atteggiamenti provocatori che attirano l'attenzione dei maschi, in una età in cui non comprendono ancora tutte le possibili conseguenze di look e movenze che alludono al sesso. Non soltanto le piccole lolite si mettono in situazioni rischiose, ma l'oggettivazione del corpo e l'imitazione di modelli adulti conducono facilmente a una rappresentazione del sesso di tipo strumentale, nel senso che la sessualità può essere considerata alla stregua di una merce di scambio. Trasformata in oggetto di consumo, la baby-modella, che per la gioia dello sponsor e della sua mamma (che in lei si specchia) assume in studio pose seduttive davanti alla macchina fotografica e occhieggia allusiva dai cartelloni pubblicitari, lancia un messaggio di disponibilità; messaggio che, se arriva a colpire il bersaglio, può rendere le sue coetanee in carne e ossa più esposte e vulnerabili.
Sotto la pressione dei marchi della moda e dei modelli che trovano intorno a loro, le ragazzine imparano precocemente l'arte della seduzione, come spiegano i sociologi canadesi Richard Poulin e Amélie Laprade (2006): «Esse vengono trasformate in oggetti di desiderio. Diventano prigioniere dello sguardo degli altri per esistere. Si espongono e si formano un'idea della sessualità e dell'amore :entrata sul sesso e sul consumo».
(pp. 31-37)
***
La splatter-filosofia
Questa mentalità a compartimenti stagni che consente alle persone di sdoppiarsi e di portare avanti una doppia morale senza provare imbarazzi, produce a volte vere proprie mostruosità. Un caso emblematico è stato quel di Alessio Sundas, un agente pubblicitario, che sul finire del 2007 promosse un'operazione pubblicitaria per vendita di un orologio, Linearom, mettendovi al centro come testimonial, un giovane rom che nell'aprile del stesso anno aveva falciato la vita di quattro ragazzi di Appignano del Tronto viaggiando di notte alla guida di un camioncino in stato di ubriachezza. All'epoca, secondo quanto riportato dai giornali, il giovane rom, che pure era agli arresti domiciliari, aveva già avuto svariate offerte di contratto per serate in discoteca. Ed ecco una rapidissima sintesi dello splatter-pensiero di Sundas:
«La mia è una scommessa: fare di un assassino una star» («Corriere della Sera», 28-11-2007).
«Cosa c'entro io? Faccio solo il mio lavoro. Questi personaggi piacciono, in tv fanno audience. È l'opinione pubblica a volerli» («Corriere della Sera», 29-11-2007,
«Non mi fermo, il meccanismo economico che si creato ora non può più bloccarsi» («Il Messaggero», 2-11-2007).
«Sto programmando una linea per bambini firmata Annamaria Franzoni» («Il Messaggero», 29-11-2007).
Il caso è istruttivo per svariati motivi. In primo luogo, per la personalità di Sundas e la sua filosofia in perfetta antitesi alla morale kantiana. Sundas vuole farsi un nome nel settore della pubblicità e dello spettacolo. Ha deciso sfondare e non intende lasciarsi sfuggire un'occasione d'oro, che potrebbe diventare il suo trampolino di lancio. Lele Mora e Fabrizio Corona sono i suoi modelli. È arrivato il suo momento. Non c'è imperativo morale che possa dissuaderlo. Non c'è sensibilità nei confronti delle famiglie dei ragazzi uccisi. Lui, ripete, fa solo il suo lavoro...
L'altro punto forte è lo status sociale delle star. Chi finisce sulla scena mediatica e diventa noto subisce una transustanziazione che lo pone al di sopra della morale comune? Sundas ne è convinto. Molti altri non lo credono ma, affascinati dalla notorietà, si comportano come se vi credessero. C'è una sorta di rispetto reverenziale nei confronti di chi compare sul piccolo schermo, come se comparire fosse sinonimo di successo, il successo sinonimo di differenza, la differenza sinonimo di superiorità. A monte di questa catena di associazioni c'è anche un fattore percettivo, il cosiddetto «fattore cornice», che di per sé favorisce la valorizzazione di chi appare in tv come illustrato nella Scheda 10. E così un omicida, come è già accaduto molte volte, può avere i suoi fan. La cronaca nera fa spettacolo, l'assassino diventa protagonista, occupa una posizione centrale sulla scena pubblica... ha successo.
Scheda 10. Il fattore cornice
I quadri degli autori importanti hanno quasi sempre belle cornici. Ma anche quadri di autori meno importanti ce l'hanno. Vi siete mai chiesti che ruolo ha la cornice? Ne ha almeno tre.
Il primo è concreto, la cornice è indispensabile quando c'è il vetro da sostenere.
Ci sono però anche altri due scopi, quello di valorizzare il dipinto e quello di convogliare lo sguardo dell'osservatore.
La cornice veicola di per sé un messaggio: ciò che io racchiudo è importante. Mette al centro il soggetto che incornicia.
Ora, si dà il caso che anche il televisore abbia una cornice, che convoglia lo sguardo dello spettatore dall'esterno verso il centro. Prima ancora che entri in funzione il pensiero, il contesto percettivo induce una valorizzazione di ciò che apparirà sullo schermo. È grazie a questo potere di orientamento e di valorizzazione della cornice, che le star, ma anche persone qualunque o addirittura criminali possono acquisire notorietà, un valore aggiunto di cui altrimenti non godrebbero.
Dall'assassinio alla Sapienza ai numerosissimi talk show su Novi Ligure, Cogne, Erba, Rignano Flaminio, Garlasco, Perugia l'obiettivo è sempre lo stesso: ottenere un innalzamento di share. Per raggiungere questo obiettivo ogni mezzo è buono, anche quello di porre un omicida al centro della «cornice». Il che alla fine lo rende interessante e gli crea intorno un alone di fascino, sia pure tenebroso: come se si trattasse di un film, di un fumetto splatter o d un videogioco e non invece di una realtà tragica, estremamente dolorosa per i familiari delle vittime. Ma una rete americana, Court TV, fa di peggio. Da anni diffonde le confessioni di criminali efferati. Con freddo e impietoso realismo questa rete televisiva non esita a presentare, in un clima da romanzo horror: stupri, assassini, torture; corpi fatti a pezzi... Per quanto si è appena detto sul ruolo valorizzante della «cornice», si comprende come uno psicopatico, un malato di mente o una persona abietta possa suscitare interesse nello spettatore e persino una sottile invidia.
I media fanno il loro gioco. I bambini e i ragazzi che vengono esposti a queste esibizioni, però, rischiano non solo di diventare indifferenti alla sofferenza, ma anche di aderire a una sorta di conformismo dell'abiezione che non consente di separare il bene dal male.
***
Il porno dilagante
Quello del facile accesso che i giovani hanno oggi alla pornografia è una questione che molti preferiscono ignorare per il semplice fatto che è difficile arginarla. Anch'essa - come la diffusione della droga tra i giovanissimi e certa filmografia violenta - è infatti regolata dalla cosiddetta «legge del mercato» di fronte alla quale si ha una sensazione di ineluttabilità e di impotenza. Internet è molte cose, tra cui anche una sorta di sex-shop cui si può accedere furtivamente a tutte le ore del giorno e della notte. Bisogna però avere il coraggio, al di là dei falsi moralismi, di chiedersi che effetti può avere questo dilagare di pornografia sui giovani che, incontrandola su internet, ne fanno un consumo facile e frequente. Se trenta secondi di pubblicità possono influenzare la scelta di un tipo di bevanda, l'esposizione alla pornografia (soft o hard) può modellare attitudini, valori e comportamento degli utenti? A seguito di una serie di ricerche scientifiche, cominciano a emergere alcune risposte.
Abbiamo visto in precedenza (p. 40) come i ragazzi affermino di essere abituati alla pornografia e di considerarla un modo come altri di esprimere la sessualità. Una realtà però non è così semplice, perché il gusto per il porno può interferire con una normale espressione della sessualità, creando cioè un meta-erotismo di cui la pulsione sessuale ha bisogno di alimentarsi, pena l'insoddisfazione. Le fantasie indotte da scene forti e ripetute nel tempo possono avere un ruolo notevole nel creare attese e inclinazioni nel predisporre a una sessualità complessa e conta. Sul rapporto con un partner in carne e ossa verrà proiettato questo immaginario «pesante» e non è detto che l'uno (o l'altra) sia disposto a condividerlo. "Le ricerche dimostrano che i ragazzi che si autoespongono a una grande quantità di materiale erotico prima dei quattordici anni hanno, in media, una vita sessuale più precoce dei loro coetanei e tendono a non prendere precauzioni né per evitare le gravidanze né per difendersi le malattie veneree. Attraverso i filmati e le scene di sesso vedono, maschi e femmine acquisiscono sempre più precocemente la dimensione tecnica e meccanica dell'atto sessuale. Centrati sulla performance e immersi in clima di provocazione erotica, molti si convincono che per sentirsi a proprio agio bisogna aumentare il numero dei partner e la frequenza dei rapporti, che una sessualità «normale» non è eccitante, che bisogna provare pratiche sessuali diverse e «osare» tutto: scambismo, perversioni soft, gadget sessuali. I giovani stupratori, i molestatori e i pedofili hanno quasi sempre la mente imbottita di pornografia.
Per quanto riguarda i bambini e i preadolescenti l'esibizione alla pornografia è uno dei fattori che li spinge a compiere atti sessuali nei confronti dei compagni di scuola e dei bambini più piccoli. Sono sufficienti poche settimane di frequentazione di siti e materiale pornografico hard perché un ragazzino minimizzi lo stupro (Garcia, 1986). Un altro rischio è che i programmi educativi la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e le gravidanze indesiderate vengano inficiati dall'esibizione a questo tipo di materiale.
Nel corso della crescita ci sono momenti in cui il cervello di un bambino e di un preadolescente risponde agli stimoli sessuali. Durante questi periodi la mente sembra sviluppare una sorta di hardware (o «magazzino mentale») per gli stimoli sessuali che riceve e da cui in seguito sarà attivata e attratta. Se in queste fasi di particolare sensibilità agli stimoli sessuali, il bambino viene esposto a stimoli devianti o immagini «pesanti» è facile che poi sviluppi dei gusti altrettanto devianti. Potrà ad esempio associare il sesso alla violenza. Ovviamente ognuno reagisce in maniera diversa, tuttavia le scene pornografiche, così forti, possono imprimersi nella memoria e rimanervi a lungo. Può crearsi una sorta di cortocircuito. Chi è abituato a eccitarsi con materiale pornografico può incontrare difficoltà a farlo in assenza di immagini. Questa condizione è stata illustrata nel film del regista Steven Soderberg Sesso, bugie e videotape, dove il protagonista si eccitava nel guardarsi nelle registrazioni assai più di quanto non riuscisse nella realtà con la sua partner.
Il rischio di una deriva esiste. A fronte di coloro che si connettono ai siti porno per semplice curiosità, ma non si lasciano condizionare, vi sono altri, invece, che sviluppano una compulsività che li porta a forme disfunzionali di sessualità. E altri ancora, con tendenze patologiche, trovano in quei siti un continuo alimento e una giustificazione alle loro devianze (Cooper et al. 2000). È interessante a questo proposito la testimonianza di un ex pornodipendente di sessantatré anni, Vincenzo, che nel 2003 ha fondato un sito contro la pornodipendenza (in Stevani, 2008):
L'inizio del contatto con la pornografia su internet può avvenire a qualsiasi età e per caso. Io ho cominciato nel 1996, quando installai il collegamento con la rete perché mi serviva l'e-mail. Una volta connesso, ho cliccato su un sito porno per pura curiosità e da li è cominciato un mondo infinito... A seconda delle persone il consumo è diverso. Alcuni salvano tutti i contenuti sul computer, mentre altri li copiano su dischetti e catalogano tutto alla perfezione. C'è una grande ossessività in questo, loro magari non guardano più il materiale, ma devono averlo lì. Naturalmente dipende anche se il pornodipendente vive in famiglia o no. Ci sono poi quelli che hanno tre o quattro siti preferiti e frequentano sempre quelli; altri invece vagano senza affezionarsi ad alcun sito in particolare... C'è una masturbazione continua, la dipendenza però non è data alla masturbazione, ma dall'emozione pornografica. La masturbazione serve per enfatizzare questa emozione, che sì diventa più intensa, infatti poi puoi stare anche due o e ore senza masturbarti e stare bene lo stesso...[...] Adolescenti e preadolescenti che accedono alla pornografia in rete corrono il rischio non solo di cadere nella trappola della dipendenza, ma anche di sviluppare un'ipererotizzazione, ossia uno smodato investimento della sfera sessuale a scapito di altri interessi, relazioni o attività. E chissà se esiste un nesso tra l'intensa frequentazione di siti pornografici e il diffondersi del turismo sessuale con minori registrato dall'Ecpat (End Child Prostitution, Pornography and Trafficking in Children for Sexual Purposes), una rete di Ong presente in settanta Paesi. Dal Kenya alla Colombia, dalla Cambogia all'Ucraina. Tutto lascia supporre che qualche nesso ci sia, anche perché molti di questi turisti sessuali possono pianificare i loro viaggi «privatamente» attraverso il web, senza dover ricorrere ad agenzie. Colpisce apprendere che l'età media dei maschi che praticano questo genere di turismo è ventisette anni e che gli italiani (pedofili e non) che ogni anno lasciano il Paese alla ricerca del sesso con minori sono oltre 80.000 («Corriere della Sera», 25-3-2008).
L'obiettivo non è l'orgasmo, altrimenti tutto finirebbe in breve tempo e tu vorresti prendere a martellate il computer...